Mantova - Galleria Arianna Sartori
Cesare Borsacchi
“Per quanto controllata e persino in parte sigillata in una sorta di visualià araldica, la pittura di Borsacchi possiede comunque una sua immediatezza, una trasparenza comunicativa.
La cogli alla prima, per via empatetica, nel dispiegarsi energico e sontuoso della forma, nella sonorità del colore, nei decisi contrasti luministici, nell’incidenza esatta e fulminante del segno, e non inibiscono la “lettura” sensitiva, che vuol dire di pelle o d’intuito, i simboli disseminati con intenzione nel contesto; non ostano le allegorie che pure hanno un ruolo non marginale nella genesi e nella definizione dell’immagine.
All’apparato simbolico si deve accedere, ed è inevitabile che accada, dopo il frastornamento e l’appagamento dei sensi, perché come confidente di foreste tropicali e di mimetismi animali, Borsacchi usa la capziosità estetica della forma, del disegno e del colore, per catturare lo sguardo al percorso obbligato dietro le quinte del suo teatro visionario, che è luogo metaforico della storia.
Potrei indicare altre possibili analogie, - scrive Nicola Micieli - e corrispondenti distinzioni, tra il mondo pittorico di Borsacchi e quello del suo maestro ideale Giuseppe Viviani, ma niente aggiungerebbero a quanto sin qui rilevato.
Del resto, non è in giudicato un’eventuale derivazione stilistica, che non sussiste.
Anche perché la formazione di Borsacchi, voglio dire del suo linguaggio e della sua sensibilità, è stata del tipo che in pedagogia si chiama “permanente”. Ossia è avvenuta per successivi incontri ed esperienze legate, come si è detto, a contesti contrassegnati da una forte identità etnografica, oltre che a singole personalità creative incontrate e frequentate nel loro ambiente di vita e di lavoro.
L’arte precolombiana e quella tribale africana, la cultura araba e islamica e quella latino-americana hanno contato quanto le opere di insigni grandi maestri dell’arte occidentale conservate nei musei, o la conoscenza sul campo di movimenti quali il muralismo messicano e di artisti di prestigio come Siqueiros, che non potevano non impressionare profondamente un pittore come Borsacchi attento alla sinergia tra tradizione culturale autoctona e le nuove proposte creative.
Quel che conta è che da migrante Borsacchi ha assimilato sempre al proprio nucleo originario l’identità altra dei segni e delle illuminazioni raccolti durante il viaggio, nel senso che partendo dall’oasi di San Rossore, e dal bacino materno dei monumenti pisani di Piazza dei Miracoli che così spesso si intravedono sullo sfondo del fitto della boscaglia, il suo percorso nei luoghi del mondo si è compiuto, stazione dopo stazione, sempre avendo presenti, interiorizzati, i luoghi nativi, sicché un battistero o un campanile pendente non sembrano spaesati su una spiaggia africana o al culmine di un vulcano andino.
Ecco, Viviani è stato per Borsacchi un compagno di viaggio presente e silenzioso perché interiorizzato come un nucleo originario di identità, e dunque emerge qua e là, inaspettatamente, come un segno, appunto, un battistero o un campanile pendente, nel divenire stilistico e figurale dell’opera, che si ispira alla vita e si compie nel laboratorio interiore dell’immaginazione.
Le immagini del ciclo che Borsacchi ha chiamato ‘visioni ischemiche’, scaturite da una parentesi di ‘assenza’ ovvero da un viaggio specialissimo nel cono d’ombra della malattia, confermano il carattere squisitamente interiore del viaggio visionario che Borsacchi compie con la pittura.
Egli afferma di aver avuto nitide quelle visioni durante lo stato di immobilità in comunicante: tanto vivide e suadenti, da rimpiangerle al risveglio. In esse compaiono flash da immagini precedenti, persino brani di incisioni applicate sul denso sedimento materico. Sono immagini oniriche - conclude Nicola Micieli - ma anche, a loro modo, storiche, in quanto documentano, come un palinsesto, un processo di formazione che si compie in interiore homini ove sono i depositi cristallizzati del vissuto”.