#325 - 4 marzo 2023
AAAAA ATTENZIONE - Amici lettori, questo numero resterà  in rete fino alla mezzanotte di venerdi 05 aprile, quando lascerà  il posto al numero 349. BUONA LETTURA A TUTTI - Ora ecco per voi alcune massime: "Nessun impero, anche se sembra eterno, può durare all'infinito" (Jacques Attali) "I due giorni più importanti della vita sono quello in cui sei nato e quello in cui capisci perchè (Mark Twain) "L'istruzione è l'arma più potente che puoi utilizzare per cambiare il mondo" (Nelson Mandela) "Io non posso insegnare niente a nessuno, io posso solo farli pensare" (Socrate) La salute non è un bene di consumo, ma un diritto universale: uniamo gli sforzi perchè i servizi sanitari siano accessibili a tutti (Papa Francesco) Il grado di civiltà  di una nazione non si misura solo sulla forza militare od economica, bensì nella capacità  di assistere, accogliere, curare i più deboli, i sofferenti, i malati. Per questo il modo in cui i medici e il personale sanitario curano i bisognosi misura la grandezza della civiltà  di una nazione e di un popolo (Alberto degli Entusiasti) Ogni mattina il mondo è un foglio di carta bianco e attende che i bambini, attratti dalla sua luminosità, vengano a impregnarlo dei loro colori" (Fabrizio Caramagna)
letteratura

L'opera nella lingua dell'Urbe

Dante

La Commedia - Canto XXIII

di Angelo Zito

All’inizio Dante e Virgilio assistono alle peripezie di un gruppo di diavoli
(iMalebranche), assegnati loro malgrado come scorta non richiesta.
Il canto si svolge nella sesta bolgia dell'ottavo cerchio,
ove sono puniti gli ipocriti con indosso pesanti mantelli di piombo.
Come da vivi nascosero la malvagità sotto l’apparenza della bontà;
così ora sono oppressi da cappe di piombo rivestite d’oro.
Dante incontra poi alla fine Caifas crocifisso a terra e calpestato dagli altri dannati.

CANTO XXIII

Soli, in silenzio, senza compagnia,
uno annava davanti, l’artro appresso,
come li fraticelli pe’ la strada.
La mente, ancora dietro a quela rissa,
me fece pensà a la favola d’Esopo,
dove ricconta de la rana e ‘r topo;
e si confronti la favola e la lotta
li trovi eguali come mó e adesso,
pensanno a l’inizio e la fine c’hanno fatto.
Come un pensiero ne fà nasce un’antro,
così me venne in mente ‘sto probbrema,
tanto da raddoppiame la paura.
Io pensavo così: “A ‘sti demòni
javemo sommato er danno co’ la beffa,
e me sa che nu’ l’hanno presa bene.
Si la rabbia s’ammatassa cor dolore,
diventeranno ancora più crudeli
der cane che vô acchiappà la lepre”.
Me s’aricciava er pelo su la testa;
guardannome le spalle, impaurito,
dissi ar duca: “Se dovemo nisconne
quanto prima, penso che da qui a poco
li Malebranche ce staranno addosso:
nun è ‘n’idea, me sembra de sentilli”.
Lui me rispose: “S’io fossi ‘no specchio
nun vedrei così bene come appari,
quanto riesco a vedé quello che pensi.
Ciavevo in testa lo stesso che me dichi,
eguale la faccia, eguale la paura,
che presi pe’ bona questa decisione:
si la riva de destra sta più in basso,
potemo scenne verso l’artra borgia,
da scampà così ar pericolo temuto”.
Nun aveva ancora finito ‘sto disegno
che li viddi arivà co’ l’ali aperte,
co’ l’intento de volecce prenne.
Er duca, sollecito, me prese
come la madre, svejata da le grida,
scorte le fiamme che je sò vicine,
acchiappa er fijo e core a piú nun posso,
co’ in dosso sortanto ‘na camicia,
angosciata pe’ lui più che se stessa,
così lui, da l’arto de la costa,
se fece scivolà giù lungo er pendio
che costeggia li lati de la borgia.
L’acqua nun corse mai così veloce
a fà girà la rota der mulino
ner punto che impatta co’ le pale,
come er maestro corse pe’ la ripa,
tenennome accollato sopra er petto,
ar pari d’un fijo, e no come ‘n’amico.
Posati appena li piedi giù ner fonno,
quelli ce arivareno de sopra,
ma nun c’era da provà paura;
la providenza, che l’aveva scerti
come guardiani de quer quinto cerchio,
je vietava de movese dar posto.
Laggiù, un passo pesante doppo l’artro,
camminaveno piagnenno sconsolate
anime che pareveno dipinte.
Portaveno mantelli cor cappuccio,
che j’arivava a l’occhi, ereno eguali
a quelli de li monachi in Borgogna.
Dorati de fora, tanto da abbajatte,
a l’interno er piommo che ar confronto
quelli de Federico ereno paja.
Oh quanto pesa er mantello pe’ l’eterno!
E co’ quelli svortammo pe’ sinistra,
compatenno co’ loro er triste pianto.
Affaticati dar peso, a passo lento,
continuaveno annà, e mano mano
ciavevamo co’ noi novi compagni.
Ar duca mio je fò: “Annanno avanti
guarda si pôi trovà quarche dannato
conosciuto per nome e pe’ li fatti.
Uno, inteso che parlavo toscano,
ce gridò dietro: “Annate un po’ a rilento,
‘ndove corete dentro a ‘st’aria scura?
Forse te posso dí quello che chiedi”
Er duca se girò: “Fermete!” me fà,
“e cammina seguenno ‘ndo’ va lui”.
Così feci e me sembrò che due
parevano interessati a stamme accosto;
ma er mantello j’appesantiva er passo.
Finarmente arivati, me guardorno,
l’occhio mezzo niscosto dar cappuccio;
poi parlareno l’uno in faccia a l’artro:
“Questo da come respira pare vivo;
si invece è morto, qual’è la grazzia
che je concede de annà senza er mantello?”
E poi rivorti a me: “ Da la Toscana
te sei mosso fin qui a ‘sta congrega
de ipocriti tristi, dicce chi sei”.
Risposi a quelli: “In quela gran città
sopra l’Arno d’argento, io lì sò nato,
e cresciuto cor corpo che ciò adesso.
E voi chi sete, che vedo er dolore
sciojese in lacrime sur viso?
Qual’è la pena che fà splenne li manti?”
Uno rispose: “Queste cappe rosse
dentro cianno er piommo che per peso
ce fà oscillà ar pari de bilance.
Frati Gaudenti fummo de Bologna;
io Catalano e questo è Loderingo,
scerti da la città tua pe’ ggovernalla,
stavorta in coppia e no da uno solo,
come s’usava, e quello ch’amo fatto
se vede ancora ar forte der Gardingo”.
Io cominciai: “ O frati, li mali vostri...”;
de botto m’azzittii, l’occhio era annato
su uno messo in croce co’ tre pali.
Ar solo vedemme se contorse,
sospirò soffianno tra la barba,
e Catalano ch’era attento disse:
“Questo, ficcato a tera, fece convinti
li Farisei che pe’ sarvà la gente
bastava crocifigge un solo omo.
Nudo, in mezzo a la strada, è carpestato
da li dannati, che je passeno sopra
cor peso che se porteno sur collo.
Er socero e li membri der Sinedrio
patischeno co’ lui la stessa pena:
seminareno sventure a li Giudei”.
M’accorsi de lo sgomento de Virgijo
davanti ar peccatore, che sopporta
d’esse dannato in croce pe’ l’eterno.
E ar frate poi je disse ‘ste parole:
“Ditece, si se pô, e nun ve scoccia,
si s’apre un passaggio su la destra,
tanto da potè trovà l’uscita
pe’ tiracce fora da ‘sto fonno,
senza chiede aiuto a li demòni”.
Quello rispose: “Mejo de quanto pensi:
‘no sperone de roccia esce dar cerchio
e scavarca le borge, meno che in questa
perché è crollato e nu’ la ricopre:
ve tocca salí su le macerie
ammucchiate tra la costa e ‘r fonno”.
Er maestro, deluso, prese a parlà:
“M’aveva riccontato ‘n’antra storia
quello che va uncinanno li dannati”.
Er frate: “A Bologna girava già la voce
de li vizi der diavolo, e intesi
che è busciardo, lo sapevamo in tanti”.
Innervosito, er duca mosse er passo,
la rabbia je se leggeva su la faccia;
così m’allontanai da li dannati
seguenno le tracce de quell’omo saggio.

Dante

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