#163 - 25 luglio 2016
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Arte

Dorothy Circus Gallery - Roma

Hyuro o la surrealtà del silenzio

di Luigi Capano

Siamo nel quartiere Ostiense, a Roma, una delle aree urbane predilette da quei graffitisti che si cimentano con i tanti muri più o meno sbocconcellati della Capitale.

Hyuro o la surrealtà del silenzioHyuro o la surrealtà del silenzio

Volgendo le spalle all’imponente Porta San Paolo, resa ancora più austera dalla nuda geometria della vicina Piramide Cestia, imbocchiamo risoluti la faticosa via Ostiense e, incuranti del triste sottopasso ferroviario che subito ci sovrasta, pieghiamo rapidamente a destra per la via del Porto Fluviale, un tempo industre e operosa.

Hyuro o la surrealtà del silenzioHyuro o la surrealtà del silenzio

Quindi, costeggiando l’ex caserma dell’aeronautica militare colorata dai murales dello street artist marchigiano Blu, ancora a destra per Via delle Conce fino all’altro sottopassaggio ferroviario - gemello del precedente - dove ancora un paio d’anni fa incuriosivano i passanti i fantasiosi dipinti degli street artist romani Lucamaleonte e Hitnes: prima cioè che le impietose maestranze comunali intonacassero le tormentate pareti.

Hyuro o la surrealtà del silenzioHyuro o la surrealtà del silenzio

Qui ora troviamo invece il recente murale di Hyuro, artista argentina residente in Spagna, realizzato in occasione della sua prima personale romana “Convivencia”, ospitata dalla Dorothy Circus Gallery (Via dei Pettinari 76).
Il primo piano acefalo di un uomo nel gesto quotidiano di abbottonarsi la camicia – e anche gli arti inferiori sono preclusi alla vista - asseconda i toni cromatici dello sfondo grigio effondendo un sentimento di compunta alienazione tutt’altro che mitigato da questa improvvisa apparizione di sradicamento esistenziale.
Voliamo nella DCG, le rosse pareti punteggiate dagli acquerelli di Hyuro, e anche qui il clima è decisamente beckettiano.
Surreali primi piani di personaggi senza volto e senza gambe; scene di gruppo inserite in uno spazio che non dà tregua al silenzio.
Una sorta di patologia prossemica sembra possedere i personaggi dell’artista argentina che documenta così, con partecipata discrezione, il malessere di un’epoca.

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