Dal circo, al teattro, alla pittura: similitudini d'arte
Galleria Faber - Roma
A proposito di kokocinski
di Luigi Capano
Un ricordo di molti anni fa balzato fuori, chi sa come, da una incerta campitura terrigna, da un umido fondaco della memoria che di tanto in tanto lasci sfuggire un’immagine brunita , un guizzo di luce, un nitido lacerto di vita.
Il danzatore butoh Masaki Iwana in un piccolo teatro di Trastevere – il Teatro La Comunità di Giancarlo Sepe – nel buio fitto del proscenio, il corpo nudo, esile, pesantemente biaccato, avvolto da una luce fredda, sembra tentare goffamente, con tragica insistenza, di sollevarsi da terra. I movimenti, a tratti, frantumano l’immobilità del danzatore: brevi, appena percettibili, sincopati, convulsi.
Qui c’è un uomo che si confronta, di fronte a un pubblico silenzioso, con i propri fantasmi, con i vincoli atavici e genetici della propria drammatica umanità …il teatro ritorna ad essere vissuto come un ancestrale rito catartico.
Nella Galleria d’arte Faber (Via dei Banchi Vecchi 31, Roma) è in corso un’esposizione personale di Alessandro Kokocinski (dal 14 novembre al 13 dicembre), un artista di origine russo-polacca, dalla biografia complicata e avventurosa, residente in Italia ormai da oltre vent’anni e spesso presente con le sue opere inquiete e tragiche nelle gallerie d’arte della Capitale.
Pittore, scultore, disegnatore, poeta, scenografo e, in età giovanile, circense: un ingegno sfaccettato la cui vena creativa attraversa carsicamente i territori inferi di Goya e di Bacon. Il lontano ricordo coreutico che ha dato l’abbrivio a queste brevi riflessioni è sorto all’improvviso un pomeriggio di qualche giorno fa, quando girovagando per l’antico Rione Ponte, già addobbato a festa per l’imminente Natale, ho riconosciuto, dietro i vetri illuminati di una piccola galleria, l’inconfondibile segno apocalittico di Kokocinski che, per via di certe risonanze goyesche, ho sempre trovato prossimo alla mia sensibilità estetica, fin da quando i libri, ormai rari, di Eugenio D’Ors mi hanno fatto conoscere l’arte del geniale maestro aragonese. La oscuridad es la sangre de las cosas heridas recita Borges.
L’umanità ferita di Kokocinski appesa alle quinte oscure e terrigne di un circo grottesco e attonito, così come lo spettrale e claudicante danzatore butoh che cerca una via d’uscita nelle tenebre, appaiono come frammenti visivi di un canto primordiale, un canto di nostalgia sporcato dalla sofferenza di un’antica perdita. Chi si fosse trovato a passare, in una calda sera di luglio, per le austere vie del quartiere Salario, nei paraggi del Macro, sarebbe stato percosso dal roco lamento di un cante hondo, il canto profondo della cultura flamenca, simbolo della perenne tribolazione gitana, della stessa natura di quel grido che dà anima all’arte di Alessandro Kokocinski.