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Racconto

L’Alfiere

di Ruggero Scarponi

- Avanti! – gridava il comandante a squarciagola, con il viso che sembrava esser diventato tutta bocca, immensa e cavernosa – Avanti, avanti per Dio! -

Ricordava l’immagine di un demone sorto dagli abissi infernali, imponente col petto proteso in avanti e tutto rosso per la concitazione. Avanzava con la spada in pugno, spezzata, ridotta a un moncone, tra la mitraglia che miracolosamente lo risparmiava. Dietro di lui un ragazzo, di poco più di sedici anni, lo sguardo fisso, le guance scavate e con un ciuffo di capelli neri e ispidi che fuoriusciva in maniera buffa dal cappello, reggeva la bandiera, tenendosi curvo nella speranza di schivare i colpi che piovevano da ogni parte. Tanto doveva esser smagrito in quei tempi di battaglia che la divisa su di lui sembrava più grande di almeno due misure. Avanzava anch’egli, appena dietro al comandante, come ipnotizzato, drogato quasi dal fumo dei moschetti e delle granate, che riempivano l’aria e dal fragore degli scoppi e dai sibili delle pallottole.

Un nostro tenente dei cacciatori, a cavallo, giunse a pochi metri dal ragazzo e ne ebbe pietà vedendolo inerme. Invece di colpirlo con un colpo di pistola ben assestato che sarebbe stato facile per la breve distanza, come ci saremmo aspettati tutti noi che osservavamo la scena dietro ai ripari, dette di sprone e avvicinatosi ulteriormente gli urlò:

- butta la bandiera, ragazzo e salta su. Sei salvo.

Ma questi non sembrava udire le parole dell’ufficiale e continuava ad avanzare tenendosi basso e badando a mantenere ben salda e svettante la bandiera.

- Butta la bandiera, butta la bandiera! – Gli urlò ancora l’ufficiale, mentre caracollava con il cavallo per arrivargli alle spalle.

In quel preciso istante il comandante nemico stramazzò a terra crivellato da innumerevoli colpi.

Cadde prima in ginocchio con ancora in mano quel che restava della sciabola. Lo sguardo truce quasi feroce, disegnato da una piega amara della bocca, incapace oramai di produrre suoni. Finalmente dopo un lungo istante in cui sembrò fissare un punto indefinito e lontanissimo cadde riverso a terra e la faccia finì impietosamente nel fango.

Eppure neanche la morte del comandante riuscì ad arrestare l’avanzata dell’alfiere.

Il tenente a cavallo si fermò per issarsi sulle staffe a osservare la scena, incredulo, di fronte all’incosciente coraggio del giovanetto. Così, pure, fece la nostra fucileria, che ammutolì incerta. Di colpo avvertimmo tutti che sul campo di battaglia era sceso un silenzio tragico. Solo il portabandiera continuava la sua avanzata, scavalcando indomito i corpi dei compagni caduti nei precedenti assalti. Avanzava evitando a balzi le buche prodotte dalle artiglierie.

Il ragazzo, assordato dal clamore della battaglia, era incapace di rispondere a qualsiasi richiamo. Avanzava ubbidendo all’ultimo ordine ricevuto cercando di tenere dritta davanti a sé la bandiera. E la teneva così stretta che quasi la sfiorava col naso. Oramai se ne distingueva bene l’asta sporca di polvere e di sangue come il giovane che presumibilmente doveva essere ferito in più punti.

Dalle nostre file qualcuno gli fece cenno con la mano che era finita, la battaglia era finita e che egli, dei suoi, era l’unico superstite. Il tenente a cavallo lo seguiva da presso quasi a fargli da scorta e assicurarsi così che nessuno potesse più colpirlo.

Senza curarsi d’altro il ragazzo procedeva a fatica, come potemmo osservare, a causa delle ferite. Nondimeno con uno sforzo eroico decise di restare in piedi e serrò ancor di più con le mani l’asta della bandiera alla quale ora sembrava sostenersi anziché esserne il sostegno. Qualcuno della nostra compagnia nelle prime file, essendo l’alfiere giunto a poche decine di metri, e parendoci stremato e sul punto di cadere, lanciò sguardi verso i nostri ufficiali come a richiedere l’autorizzazione a prestargli soccorso.

Ma nessuno dette l’ordine e sul campo libero dalla nebbia prodotta dalle polveri apparve nitida e perfino maestosa la figura dell’alfiere. Evidentemente il ragazzo obbediva all’ordine di portarsi fino alle schiere nemiche e avanzava non rendendosi conto di non avere più nessuno dietro di sé. In molti commossi da tanto eroismo presero a lanciargli urla di incitamento che però non sembrava ascoltare tutto concentrato nell’assolvimento del proprio dovere.

Finalmente giunse a toccare la nostra barricata. Vi si pose di fronte e con un ultimo sforzo tentò di drizzarsi sull’attenti con la bandiera al fianco. E mentre la nostra compagnia gli si faceva intorno gridando e applaudendo come a un attore al termine di una “scena madre” egli comprese. Fece appena in tempo a voltarsi d’ogni lato sorpreso e smarrito, con gli occhi lucidi, quando di colpo crollò a terra, inutilmente soccorso da tanti dei nostri.

La guerra durò ancora diversi mesi ma non avrei più dimenticato quel ragazzo, né il suo coraggio incosciente.

Per tutti noi, da quel giorno, il giovane alfiere divenne un emblema, di uomo e di soldato, al di sopra delle opposte schiere. Un piccolo eroe di fronte al quale ci sentimmo onorati di toglierci il cappello.


Racconti d’altri tempi  

Gildo

di Agnolo Camerte

Entrò palesemente imbarazzato a negozio una persona, con una zoppia che gli rendeva l’incedere ondeggiante, la barba lunga, scarponi ai piedi ed una giacchetta consunta che gli ballava attorno perché troppo larga.

Sembrava un poveraccio che volesse chiedere l’elemosina... La mamma di Carletto, generosa com’era , infatti si diresse verso la cassa quasi volesse dargli una monetina...

Quello lì invece, arrossendo tutto in viso sotto quella barba lunga, le disse quasi balbettando... ”signò mi è successo un guaio... .mi scusi tanto se me permetto, ma mi si sono scuciti i pantaloni e siccome devo andà subito giù all’Ospedale al funerale di mamma, non so come fa perché qui non conosco nessuno..” In effetti aveva il popò di fuori perché i pantaloni si erano scuciti tutti...

Poveretto! Gli fosse cascata una tegola sulla testa, in confronto sarebbe stata una carezza!

Era proprio disperato! Ma non si capiva se lo fosse più per i pantaloni scuciti o per la morte della mamma...

Ma non hai nessuno con te che ti possa aiutare?
Rispose quasi piangendo che lui aveva solo la mamma, ora passata a miglior vita.

La mamma di Carletto era una donna notoriamente generosa e subito compresa la difficoltà di quell’uomo, riflettendo e guardandolo, viste le sue misure, pensò che forse un paio dei miei vecchi pantaloni gli potessero andare bene. Detto fatto dicendogli di aspettarla, filò a casa e tornò poco dopo con un paio di pantaloni , dicendo a Gildo di provarli, là dietro il magazzino.

Ma no! Signò! E’ troppo! Si scherniva Gildo, ma io non li posso pagà, non ce l’ho i soldi... faccio il pecoraro, mica so un signore che me li posso comprà sti pantaloni, a me bastava un ago con un po’ de filo...

Tu non ti preoccupare gli disse la mamma, fammi vedere se ti entrano!

Gli entrarono, ma non aveva la cintura! Adesso come fai? Disse la mamma, questi ti scendono così!

Al che tirò fuori dalle tasche della giacca uno spago con il quale risolse la situazione. Devo andare giù all’Ospedale , grazie tante, poi ve li riporto! Non ti preoccupare -rispose la mamma- te li puoi tenere!

Carletto non lo rivide che qualche mese dopo, durante un’escursione sui monti con i suoi amici.

Si sentì chiamare da lontano... Stava con le sue pecore e quando lo salutò per lui fu una festa... Tirò fuori un bel pezzo di pecorino per farcelo assaggiare, e noi condividemmo il nostro pranzo al sacco con lui. Quanto gli piaceva la carne delle scatolette!

Gildo, ma non hai fatto colazione che hai tanta fame? Ma no ci disse io tutte le mattine prima di partire da casa mi mangio un chilo di spaghetti che mi piacciono tanto col pomodoro!

Ma come fai a mangiarteli tutti a colazione! Gli disse Carletto! Lui chiarì che quella pasta gli bastava per tutto il giorno!

Per l’aspetto truce che aveva, l’andatura dondoante per la zoppia, e la pancia ondeggiante, non si poteva definire un adone; le donne confessò che lo sfuggivano...e lui si sentiva solo... Aveva bisogno di una donna...

Lo consigliò Carletto dicendogli di non pensarci e di distrarsi leggendo l’Orlando Furioso. Sai leggere no? Continuò curiosamente. So leggere? Ma certo! L’Orlando Furioso poi lo so a memoria!

Cala trinchetto, rispose incuriosito Carletto, non lo sappiamo neanche noi che studiamo, e chi ti crede che tu lo sai a memoria? Gildo non esitò un’attimo e ci sbalordì declamando interi passi senza nessuna esitazione!

   

Incredibile! La tradizione dei pastori dell’Italia centrale , di tramandarsi tali poemi oralmente, era ancora viva! Ascoltavamo Gildo meravigliati, sorpresi , incantati dalla facilità con la quale si ricordava tutte quelle rime! Lui che sapeva appena leggere, sapeva declamare l’Orlando Furioso!

Finì con un’applauso della comitiva e con l’assicurazione che lo avremmo aiutato a trovar moglie...

Incauto Gildo a fidarsi di noi, che non pensavamo altro a quella età che a combinar scherzi!

Infatti il giorno dopo , mentre eravamo sulla piazzetta del paesino sotto la montagna, vedemmo arrivare su in alto un pulman..Cesarino col binocolo osservava... Si mise a chiamare Gildo, ho visto un bel po’ di sottane scendere dal pulmann! Quello partì caracollando ed arrampicandosi come una capra sulla montagna, in mezz’ora arrivò in cima, speranzoso... Ma che fregatura! Erano tutti seminaristi!.....Altro episodio che si ricorda fu quello della gita in compagnia delle nostre compagne di liceo. Avvicinammo il poveretto dicendogli che Carletta si era innammorata di lui, ma che era molto timida! Gildo capirai, cercava moglie e partì in quarta, incominciando ad assillare la poveretta, che non aveva scampo, inseguita per i prati dal pretendente. La salvò il tetto della pintura sul colmo del quale si rifugiò e si salvò.

Con l’autunno finirono le gite in montagna, non si vide Gildo che la primavera successiva... .e sorpresa delle sorprese, lo incontrammo al paesello in compagnia di una bellissima ragazza bionda! Il Prete gli aveva trovato moglie!...e che bella moglie. Inevitabilmente facemmo loro una bella festa improvvisata al baretto del paese, con tanto di rinfresco pagato da noi “cittadini”. Sapete come andò a finire? Che un’uomo con il quale madre natura non era stata affatto generosa, ma che era molto buono e gran lavoratore, e una donna molto bella ed altrettanto generosa e lavoratrice, ebbero il dono di due figli bellissimi, biondi, sani e bravi come i loro genitori.

Noi ragazzi li ricordiamo come una famiglia poverissima, timorata di Dio, e premiata dalla Provvidenza con il più bel dono: una famiglia bella, sana , contenta di quel poco che aveva.


Ti auguro la felicità di fare quello che fai nel migliore dei modi. Di correre il rischio di tentare, di correre il rischio di donare, di correre il rischio di amare (Pam Brown) - L’uomo rimane importante non pertchè lascia qualcosa di sé, ma perché agisce e gode, e induce gli altri ad agire e godere (Goethe) - Non saltando, ma a lenti passi si superano le montagne (San Gregorio Magno) - L’aquila vola sola, i corvi a schiera; lo sciocco ha bisogno di compagnia, il saggio di solitudine (Johann Ruckert) - non c’è gioia nel possesso di un bene se non viene condiviso (Seneca)