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Racconto

Il Premio Nobel

(prima parte)

di Ruggero Scarponi

Avevo ventitré anni e all’università frequentavo l’ultimo anno del corso di lingue dell’oriente slavo. Il mio interesse si era indirizzato da tempo allo studio della lingua e della letteratura degli Unguscezi un popolo che viveva in una remota regione del Caucaso meridionale.

Un crocevia di culture ed etnie al confine tra le repubbliche ex sovietiche e la Turchia.

Ciò che mi aveva affascinato nella scelta abbastanza singolare di studiare una lingua quasi sconosciuta e dallo scarsissimo interesse commerciale presso di noi, era stata la straordinaria vitalità culturale di quella comunità, fatta di meno di un milione di abitanti.

La storia delle infinite lotte sostenute contro i tanti nemici esterni era stata la principale fonte d’ispirazione per la produzione di suggestivi poemi epici e fantasiose mitologie di cui tuttora si nutriva la fantasia popolare. Purtroppo il costo notevole del viaggio, per le condizioni economiche della mia famiglia, mi aveva sempre impedito di realizzare il sogno di visitare quel lontano paese.

Ogni anno la nostra università in collaborazione con quella della cosiddetta “Atene del Caucaso” la capitale dell’Unguscezia, Kamarsan, pubblicava il bando per un concorso di poesia in lingua Ungusceza. Su invito del professore di letteratura slava, che poneva grande fiducia nelle mie capacità letterarie, mi convinsi a partecipare.

Si trattava di presentare una traduzione o un componimento poetico con libertà di scegliere la forma e lo stile. Mi venne in mente di tentare un accostamento azzardato, di tradurre cioè alcuni sonetti del Belli, cercando di mantenere se non sempre il senso e i doppi sensi, quantomeno lo spirito gagliardo e graffiante.

Poco tempo dopo aver spedito il plico con il mio elaborato me ne dimenticai completamente, immerso com’ ero nelle ultime sessioni d’esame e in procinto di iniziare a preparare la difesa della tesi. Così fui colto letteralmente di sorpresa quando una bella mattina di febbraio (era trascorso quasi un anno) ricevetti un telegramma dall’Università di Kamarsan.

Mi si comunicava in tono asciutto e formale che avevo vinto il primo premio.

Sulle prime pensai a uno scherzo di qualche collega ma la conferma della bella notizia arrivò quasi subito tramite il professore che mi aveva spinto a partecipare al concorso.

In breve ricevetti una quantità di messaggi di felicitazioni, da parte di vari accademici e persino il Magnifico Rettore volle complimentarsi con me di persona.

Ero stordito, mai avrei pensato di vincere un concorso che rappresentava il massimo riconoscimento letterario di tutto il Caucaso meridionale e che finora non era mai stato assegnato a uno straniero.

Il premio consisteva in una somma in denaro con la quale avrei potuto acquistare l’agognato biglietto aereo per l’Unguscezia dove, per due settimane sarei stato ospite del ministero della cultura nazionale e per un’altra settimana, meraviglia delle meraviglie, del più grande poeta locale, Lukash Shakaswili, premio Nobel per la letteratura.

Dovetti attendere il mese di giugno prima di poter affrontare il viaggio, a causa delle condizioni atmosferiche e del gelo che per più di sei mesi all’anno, in quel lontano paese, rendeva quasi impossibile l’utilizzo delle strade e dei trasporti in genere.

Quando finalmente riuscii a partire e dopo un volo di parecchie ore l’aereo atterrò sulla pista della capitale della misteriosa Kamarsan, cominciai a ricredermi su alcune delle mie convinzioni riguardo al paese che andavo a visitare. Mi ero fatto l’idea di giungere su un piccolo aeroporto campagnolo, con le piste ingombre di vecchi bimotori a elica. Invece mi trovai quasi spaesato nel mezzo di un gigantesco e modernissimo aeroporto al cui confronto i nostri in Italia facevano una magra figura.

Portate a termine le formalità doganali non dovetti preoccuparmi di nient’altro, ad attendermi c’era una numerosa delegazione dell’università statale, intitolata a Ghyuri Grezny, l’eroe delle guerre contro i turchi, vissuto a metà del XVII secolo.

Da quel momento ebbe inizio per me un periodo di estenuanti festeggiamenti.

Ricevetti una quantità di inviti a serate in mio onore in cui mi furono consegnati diplomi e attestazioni da parte di varie associazioni culturali.

Confesso però che tenere una lectio magistralis in lingua ungusceza nell’aula magna dell’università statale fu il momento più emozionante. Davanti a me seduti sugli scranni erano decine di professori, gli spiriti più eletti dell’Asia centro-meridionale.

A loro parlai descrivendo il percorso tecnico e stilistico che avevo seguito nell’affrontare la traduzione dei sonetti del Belli.

Ricevetti molti applausi calorosi. E non senza motivo, se non altro per aver introdotto la forma “sonetto”, sconosciuta alla letteratura locale.

Uno solo, tra gli illustri accademici, seduto nell’ultima fila con il volto nascosto da grandi occhiali neri, ascoltava attento senza mai applaudire. Anzi per la verità durante la descrizione di alcuni passaggi notai con la coda dell’occhio un’impercettibile smorfia sul suo viso. Come se una piega del labbro inferiore stesse indecisa se volgere al riso o al disgusto.

Passate due settimane cessarono i festeggiamenti e gli incontri programmati con varie personalità del mondo culturale e accademico. Finalmente avrei potuto raggiungere Bakhaar, il solitario ritiro del più celebrato poeta unguscezo, Lukhas Shakaswili.

Il ministero della cultura nazionale aveva organizzato tutto.

Una mattina, infatti, venne a prelevarmi presso il mio hotel un funzionario statale con un’enorme auto nera guidata da un’autista in livrea. Nell’auto a farmi compagnia durante il viaggio c’era un professore di letteratura italiana con la sua segretaria, una bionda molto avvenente.

Partimmo sul presto, il viaggio, per raggiungere la lontana Bakhaar, sarebbe stato lungo dovendo attraversare le foreste e le montagne del Caucaso meridionale. La cittadina si trovava in un punto del territorio a ridosso del confine con la Turchia e con l’Iran.

Per fortuna le strade erano ben tenute e l’auto poté procedere veloce e senza intoppi. Mi sembrava di vivere in un sogno.

Veder scorrere davanti a me monti e vallate dai nomi a lungo studiati sui testi universitari, mi dava un senso di ebbrezza.

Quanti canti e quanti poemi erano stati composti dai poeti erranti su quelle montagne e ora me le trovavo davanti, quasi a portata di mano.

Ne conoscevo i nomi e mentalmente ripassavo nella memoria tutta la geografia locale sforzandomi di ricordare con precisione le catene, i massicci e le vette più alte.

Ricordare non era in quel momento un banale gioco della memoria ma un’esigenza più profonda, esprimeva il mio desiderio di appartenere, di sentirmi in pieno diritto di quella terra e di quel popolo.

Intorno alle ore tredici, essendo in viaggio già da molte ore, decidemmo di fermarci a mangiare presso una locanda, dove ebbi modo di apprezzare la specialità del posto, gli spiedini di carne di agnello cotti sulla brace.

Il locale era assai caratteristico, di fuori era rivestito con grandi lastre di pietra e dentro arredato con lunghi tavolacci in legno scuro, spessi e irregolari, come le sedie, massicce e traballanti.

Vi si respirava un’aria d’oriente.

Ci accolse un uomo piccolo e tozzo con due occhietti mobili dall’aria furba, vestito con una lunga casacca di lana grezza e ampi pantaloni sbuffanti infilati negli stivali di pelle lucida. S’informò subito dal professore di cosa desiderassimo mangiare e poi sparì svelto nella cucina a preparare. Evidentemente era solo e non avendo personale di servizio si adattava di volta in volta a ricoprire tutti i ruoli secondo le necessità.

Con una rapidità sorprendente riuscì a imbandire una tavola con diversi cibi rustici che apprezzammo sinceramente dopo la fatica del viaggio.

Ma la cosa che mi sorprese di più, durante il pranzo, fu la voracità della signorina Nadja, la segretaria del professore di letteratura italiana.

Pareva non saziarsi mai e alternava ai cospicui bocconi di carne, lunghi sorsi di acquavite. Inoltre non mostrava il minimo riserbo.

Appena fummo entrati nella locanda, dopo essersi tolta il soprabito che indossava per il viaggio restò con una minigonna cortissima e una camicetta talmente attillata che sembrava non riuscire a contenere quanto avrebbe dovuto.

A tavola si era seduta vicino a me e durante il pranzo con il suo modo scomposto di mangiare, metteva continuamente in mostra la scollatura. Inoltre si puliva il sugo che le colava dal mento con il dorso della mano che poi asciugava sulla tovaglia senza alcun imbarazzo.

Faticavo a immaginarla segretaria di un letterato. In tutto il pranzo non prese minimamente parte alla conversazione e mostrò interesse solo per il cibo e i liquori che ingurgitava con la massima indifferenza.

Continuò a bere anche dopo mangiato mentre io e il professore sorbivamo tazze bollenti di caffè turco. In tutto quel tempo Nadja non disse una parola, nemmeno quando fattomi coraggio, provai a parlarle. Teneva gli occhi bassi sul piatto oppure fumava sigarette senza tregua, buttando giù di tanto in tanto bicchierini di vodka iraniana, senza degnarsi di rispondere.

Dopo qualche tentativo in cui la ragazza non aveva nemmeno alzato gli occhi su di me, facendomi dubitare seriamente della mia padronanza della lingua locale, si levò improvvisamente per andare a riposare in una stanza della locanda.

Il professore di letteratura italiana si oppose fermamente.

Dovevamo raggiungere Bakhaar prima di sera, non c’era tempo per la siesta.

Tra i due scoppiò un violento litigio. La ragazza parlava usando frasi secche e taglienti, in un dialetto a me sconosciuto, con un tono così risoluto che mi suscitò dubbi sui rapporti professionali tra i due.

Dopo un po’che parlavano Nadja voltò le spalle al professore e si diresse al banco della locanda e come se nulla fosse di fronte all’albergatore allibito, prese dal quadro una chiave e si avviò a una camera al piano superiore.

(Continua la prossima settimana)


Racconto d’altri tempi  

Elia la segretaria due

di Agnolo Camerte

Come trapelò la notizia del fidanzamento di Elia, negli uffici incominciò il tour dei rallegramenti; “tanti auguri Elia”, “ma come sono contenta!”, “com’è, com’è, è bello?.....
Le signore dell’ufficio erano molto incuriosite, sembravano impazzite e nell’ufficio si creò una specie di processione..
Finchè Carletto fu costretto a chiudere la porta…anche se con Elia così eccitata, non si sentiva molto al sicuro….. Chiamò perciò, per sicurezza, Francesco l’archivista, e spedì entrambi in archivio a mettere a posto certe pratiche. Finalmente un po’ di pace!

Momentanea però; infatti dopo un po’, suonata la campanella della sosta per la mensa, si sentì il botto di una bottiglia di champagne…..e fu festa in archivio! Il solito Francesco era riuscito a convincere l’Elia a festeggiare e brindare in ufficio…..Che festicciola!
Le piaceva stare a tavola ad Elia; si vedeva che era una buona forchetta poiché era massiccia e grossa da sembrare quasi una lottatrice. Conseguentemente la festa fu un vero e proprio banchetto…che Elia diresse dando esempio con un appetito formidabile!
Elia, ma quanto mangi! Le disse una collega. Lei rispose a bocca piena, quasi grugnendo, che almeno la sera non avrebbe cenato e che doveva tenersi in forze perché domani, sabato, partecipava ad una gara podistica!
Carletto rimase stupito il lunedì nel vederla arrivare con una coppa! Incredibile, ma vero,l’ aveva vinta nella categoria donne! Fu subito da noi promossa massaggiatrice ufficiale della nostra squadra di calcetto….
Aveva “vinto” però anche un fidanzato che , poveretto, era evidente quanto fosse succube di quella donnona, lui piccolo e mingherlino come era….. Con gli insegnamenti di Francesco Elia si sentì pronta in breve tempo al grande passo: il matrimonio! D’accordo le diceva Francesco, ora ti ho insegnata tutta la teoria…..ma tu che sai fare? Ti senti pronta? Ma quando ce lo fai conoscere?....Poverina! Lei si scherniva, ma alla fine ci fece conoscere il suo principe azzurro……Il cavallo bianco non ce l’aveva, ma gli mancava anche molto altro…..piccolo, smarrito, minuscolo vicino ad Elia, sembrava un condannato rassegnato…..Però si volevano sposare in Chiesa con rito religioso….E questo ci sembrò una buona cosa.

A Carletto venne in mente Il Diritto Romano: matrimonium est coniunctio maris et foeminam . Il matrimonio è l’unione di un uomo e di una donna…l’uomo e la donna diventano coniugi.
Già duemila anni fa si pensava al matrimonio come una unione di un uomo e di una donna.
( il buon senso comune
considera ancora il matrimonio l’unione tra un uomo ed una donna; sorprende che un magistrato non trovi un altro vocabolo per indicare le unioni omosessuali e la regolamentazione giuridica di tali unioni; chiamarle “matrimonio” non è appropriato!) .

Torniamo ai promessi sposi…..
Si sposarono con cerimonia fastosa mentre io purtroppo ero in ferie ; Francesco l’archivista mi raccontò che fu tutto regolare e bello. Meglio così pensò Carletto…magari ora si calma un po’ Elia… La aspettammo tutti sereni, ma quando arrivò notammo tutti che era molto più nervosa.

Bisticciò subito con un impiegato, campione regionale di podismo: gli tirò la calcolatrice, che schivata dal podista , volò fuori nel cortile sfiorando il portiere, che dovetti a lungo calmare…..Era tornato tutto come prima, anzi lei era peggiorata, ma perché?.. Francesco, ci svelò l’arcano. Era nervosa perché il marito sembrava non fosse all’altezza di onorare i suoi doveri coniugali….Si addormentava e basta! Povera Elia, le mancava solo questa di disgrazia!

Fu così che Francesco detto il paziente maestro, si rimise ad insegnare.
Aveva la sera prima visto il film nel quale Fantozzi si getta dall’armadio sul letto……Suggerì quindi ad Elia di fare come lui….”Vedrai tuo marito come sarà contento……”. Non fu così perché pare che lo ricoverarono al pronto soccorso, con una costola rotta….mentre il letto si spaccò tutto.

Povera Elia, non ne azzeccava una…..era di una ingenuità disarmante…..ma era di una generosità e di una bontà unica.
Un giorno comperò al mercato un cocomero enorme, per il pranzo…Prima si mangiò mezzo chilo di gorgonzola, con un filoncino di pane, poi si bevve un mezzo litro di barbera e si mangiò quasi tutto il cocomero…..Dopo un po’ chiamammo il pronto soccorso…… Nonostante le sue stranezze e le sue disavventure, Elia, la segretaria che ammalia, era benvoluta da tutti e tutti cercavamo di proteggerla anche da se stessa.
Chissà se oggi il lavoro negli uffici possa essere svolto con la stessa allegria, e con tanta voglia non solo di fare bene, ma anche di farsi del bene.

   


Ti auguro la felicità di fare quello che fai nel migliore dei modi. Di correre il rischio di tentare, di correre il rischio di donare, di correre il rischio di amare (Pam Brown) - L’uomo rimane importante non pertchè lascia qualcosa di sé, ma perché agisce e gode, e induce gli altri ad agire e godere (Goethe) - Non saltando, ma a lenti passi si superano le montagne (San Gregorio Magno) - L’aquila vola sola, i corvi a schiera; lo sciocco ha bisogno di compagnia, il saggio di solitudine (Johann Ruckert) - non c’è gioia nel possesso di un bene se non viene condiviso (Seneca)