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Arte

Le parole e le persone

conversazione con Sergio Gotti,
un uomo caduto sulla terra

di Giada Gentili

Incontrare il Maestro Sergio Gotti nelle sua casa colma di lavori e di misteri, dove i quadri, i mobili, le preziose raccolte paleontologiche, gli oggetti, i libri, formano un corpo unico con la sua presenza fisica, presenza che un ambiente chiuso fatica a contenere; stanze cariche di memorie e tesori, così impregnata di incontri, di viaggi, di scoperte; incontrare Sergio Gotti, erudito di pura razza, in questi tempi di disastro e di apostasia, vuol dire celebrare una volta per tutte la sacralità di un incontro, rito antichissimo di cui si sono perse le tracce nella volgarità e banalità del nostro quotidiano. Con quale minuziosa attenzione Gotti ha disegnato un percorso, un itinerario quasi favolistico (ma non lo è affatto) in pochi metri. Il timore è quasi di perdersi, un timore quasi reverenziale.

Che cos’è per te l’Arte? Cosa rappresenta?

L’arte per me è vivere, è la mia stessa vita, io stesso sono le opere che ho realizzato. Non passa giorno senza che io faccia qualcosa di nuovo, senza che veda davanti a me un’opera in formazione o in embrione. Non passa giorno che non apra un libro su un argomento che mi preme. Questa acquisizione della conoscenza si trasforma in espressione artistica. Tutto ciò che io acquisisco, lo devo ridare, lo devo trasformare in una forma artistica. Questa è la testimonianza di quello che faccio, della mia vita, della mia persona, di Sergio Gotti: di quello che ho scoperto e che ho il dovere di trasmettere agli altri. Attraverso le opere cerco di creare emozioni, le stesse con cui ho lavorato, e provare a trasportare il visitatore dentro questo mondo. Un viaggio attraverso i misteri dell’uomo.

Quando sei nato all’arte?

Da bambino costruivo teatrini: con i manici di scopa, stoffe, materiale usato. Trasformavo tutto quello che mi capitava sotto le mani e poi chiamavo i miei amici a far vedere i lavori. Ricordo certe spade costruite con le tavole e con cui si vendeva il baccalà al mercato. Questo da ragazzo. Poi ho fatto l’Istituto d’Arte e lì ho conosciuto il maestro Valerio De Angelis che mi ha introdotto nell’officina dell’Arte. Le vere cose importanti le ho iniziate nel 1987 con le prime mostre, a Londra, a Dusseldorf. Poi all’inizio degli anni novanta ho iniziato a sperimentare questa nuova tecnica, cosìddetta materica, che è una mia invenzione. Sono l’unico artista al mondo a produrre opere simili. Niente di presuntuoso, solo la pura verità. Qui ho trovato la mia espressione personale.

Come è nata? Un’esigenza?

No. Spiego. Sulla pittura si lavora sulla bidimensionalità. Base e altezza, d’accordo? Le figure sarebbero piatte se tu non usassi la prospettiva. Attraverso la prospettiva e i chiaroscuri tu dai profondità e spessore. Ma volevo tirare fuori anche la tridimensionalità delle figure (che è poi il lavoro dello scultore) in modo da far suscitare un immediato sentimento in chi osserva. In queste opere, materiche, appunto, mutando l’incidenza della luce, a seconda dell’ora del giorno, cambia la visibilità. I chiaroscuri si spostano. Nell’opera pittorica riesco a fermare solo un momento. Un attimo. Qui interagiscono elementi esterni, mentre sulla tela l’immagine è fissa. Qui l’impatto visivo cambia continuamente.

Una sorta di 3D, per parlare di un argomento di moda?

Sì, precisamente, ma senza gli occhialetti.

Su cosa lavori? L’essenza del tuo lavoro…

Lavoro sugli ingranaggi, anzi, l’ingranaggio misterioso che regola l’universo. La ruota ad esempio. L’ingranaggio che muove l’universo lo riproduco metaforicamente su queste opere. Questa ricerca ha qualcosa di simbolico, di arcaico, ha radici antichissime. Ho lavorato molto sui numeri, sulla sacralità di certi numeri: il sette, il dodici… Sono profondamente legato all’uomo preistorico. Non è un caso che la paleontologia sia un’altra materia che mi appassiona. Gli uomini preistorici avevano dentro di sé qualcosa che noi abbiamo perso, una sorta di conoscenza sui misteri che regolano l’universo. Tutto questo noi lo abbiamo perso con l’avanzare della tecnologia. Viviamo sicuramente meglio, ma abbiamo perso questo contatto con l’universo. Nelle mie opere c’è l’esigenza di recuperare questo contatto.

Ma la gente avverte questa tua tensione? Sono argomenti piuttosto complicati, non alla portata di tutti.

Hai sicuramente sentito parlare della sindrome di Stendhal. Ebbene mi è capitato di assistere a persone che ne sono state colpite guardando i miei lavori. Cerco di trasmettere queste cognizioni perdute. E sono sempre più convinto che alcune persone nascono alla vita con queste peculiarità. Sta poi a loro saperle coltivare e dargli un senso. Ma è un percorso molto difficile per arrivare a comprendere cosa sono, cosa vogliono dire, l’uso che ne devi fare. Queste esigenze si pagano: ti lasciano perplesso, inquieto. Poi non ti mollano più e sei quasi costretto a correre loro incontro, a cercarle e, nel caso di un artista, a riprodurle materialmente.

   

Nonostante la complessità della tua arte, del tuo pensiero, della tua ricerca, molto variegata, il messaggio è sempre chiaro? Voglio dire: il pubblico semplice, riesce a comprenderlo?

Usando l’arte, cerco di mettere dentro dei simboli, dei messaggi che però possano capire tutti. Lo sforzo è anche quello. Ma le testimonianze parlano di comprensione. Attenzione poi: quando parlo di mistero, di esoterismo, ne parlo come di misteri sani, di qualcosa che è insito dentro e fuori di noi, niente a che fare con streghe e sabba. Studio del mistero. Molta parte di me è ancora nascosta, deve venir fuori. Questo il motivo della continua ricerca. Ricomincio da zero, sempre. Ogni viaggio è un inizio, ogni scoperta, ogni nuovo interesse è una nuova pagina, l’inizio di un nuovo lavoro. Questa dovrebbe essere la condizione dell’uomo, una continua ricerca. Quando parliamo della mia espressione artistica, parliamo di un’esigenza di comunicare. E comunicare vuol dire farsi capire. Quando nella mia testa nasce un’opera, è come se fosse già terminata. Non ho bisogno di fare i bozzetti del lavoro. Debbo realizzare subito quello che ho visto dentro di me. I nativi d’America parlano di “visioni”. Questo mi capita spesso e il giorno seguente devo comprare i materiali, ho la frenesia di terminare ciò che è nato nella mia testa. Quando mi chiedono: quanto tempo ti occorre per fare un’opera? faccio fatica a spiegare che me ne occorre poco. Le persone sono convinte che più lavori su un’opera (in termini temporali) e più ha valore. Il valore dipenderebbe dal tempo che tu impieghi a fare un’opera. Sono cose che non capisco, che non mi appartengono.

Più tempo impieghi, più ha valore economico…

Esatto. Ma a me talvolta bastano un paio di giorni per terminare un’opera, un lavoro. Chiudo gli occhi e la vedo già realizzata. Non lo sto dicendo per egocentrismo, per mettermi in cattedra. E’ una vibrazione, una frenesia che non mi lascia, ne sento quasi il fiato sul collo. E’ un ordine a cui debbo obbedire.

Che materiali usi in queste composizioni che chiami materiche?

Legno, impasto di polvere di marmo, cemento bianco e colla vinavil. Prima impastavo la calce con delle colle da pittore, ma non tenevano, si staccava tutto. Poi sono andato a vedere come i romani lavoravano gli intonaci. Usavano la polvere di marmo perché la superficie veniva più liscia e si poteva dipingere meglio. Allora ho provato questo nuovo impasto e i risultati mi hanno dato ragione. Una volta stesa la base, sovrappongo gli altri strati, per arrivare all’ultimo ... questo ti consente di avere le profondità volute. Mi piacerebbe anche insegnarla questa tecnica.

A proposito di insegnare. Non hai una scuola, dei discepoli, come si usava una volta?

Ho provato a chiedere dei locali ma non si trova nulla. Ne avrei di allievi. Spesso vado ad insegnare volentieri nelle scuole. Hai visto il lavoro sul futurismo alla scuola di Colle Palazzo ? Con i bambini abbiamo fatto un lavoro straordinario…..

Ne parleremo la prossima volta… fra sette giorni…


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