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Fotografia

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Humanity

Pinacoteca Carlo Contini, Oristano

a cura di Ivo Serafino Fenu

Il corpo come sede del controllo sociale e della repressione, corpo come “carnaio di segni” nelle parole di Foucault. Protagonisti della mostra sono Nan Goldin, Nobuyoshi Araki, Matteo Basile, Erwin Olaf, Robert Gligorov, Marc Vincent Kalinka e Gregory Crewdson e molti altri ancora.

Dopo la mostra inCOLLECTIONone_La Collezione di un Sardo, con opere di Peter Belyi, Blue Noses, Oleg Kulik, Darren Almond, Robert Gligorov, Matteo Basilè, Li Wei e Zhang Huan e la mostra inCOLLECTIONtwo_Periferie dell’Impero con le opere degli artisti Ale De La Puente, Maria Magdalena Campos-Pons, Carlos Garaicoa, Francis Naranjo, Paolo Bianchi e Danilo Sini, l’attitudine multietnica, polimorfa e attenta al sociale del collezionista Antonio Manca, sardo e cosmopolita, trova conferma anche nella selezione presente nella mostra inCOLLECTIONthree_Humanity, terzo e ultimo tassello della trilogia inCOLLECTION.

La mostra Humanity, prodotta dal Comune di Oristano e curata dal critico Ivo Serafino Fenu, prende in prestito il titolo della celebre e apocalittica canzone degli Skorpions del 2007, incentrata su un’umanità vittima e carnefice di se stessa, afflitta da una profonda perdita di valori, colpevole dell’inarrestabile degrado del pianeta e destinata, per sua stessa mano, all’estinzione, tanto che il testo chiude con un verso cupo e sconsolato, senza speranza: Humanity goodbye. Tuttavia il sostantivo “Umanità” e, allo stesso modo, il vocabolo inglese Humanity, trascendono il loro valore collettivo e abbracciano una pluralità di significati che, se da un lato identificano i caratteri essenziali e distintivi del genere umano, dall’altro evocano l’essere “contingente”, la fragilità e la precarietà del singolo, le responsabilità individuali per un disastro giocoforza globale. Di quest’immensa fragilità l’arte contemporanea ha dato conto in modo impietoso, talvolta in forme cinicamente crudeli, individuando nel corpo, nella sua ostensione e nella sua ostentazione, il luogo privilegiato, il Sancta Sanctorum del conflitto.

   

Tutto questo perché, per dirla con le parole di Francesca Alfano Miglietti, “il corpo è, per il potere, la sede privilegiata su cui far transitare i bisogni e i desideri, processi fisiologici e metabolismi, attitudini da controllare e reprimere.” Corpo come sede del controllo sociale e della repressione, corpo come “carnaio di segni” (M. Foucault) e, per l’arte contemporanea, segno per antonomasia. Questo corpo di segni, questi segni del corpo e sul corpo sono, pertanto, i protagonisti della mostra Humanity, attraverso opere di Franko B, Sandy Skoglund, Luigi y Luca, Entang Wiharso, Orlan, Wang Qingsong, Erwin Olaf, Robert Gligorov, Susan Paulsen, Nobuyoshi Araki, Matteo Basilé, Fx Harsono, Greta Frau, Nan Goldin, Daniele Buetti, Yasumasa Morimura, Chiara Dynys, Pietro Sedda, Marc Vincent Kalinka e Gregory Crewdson, a ribadire, tutte, con linguaggi e accenti diversi: Humanity goodbye.


Ti auguro la felicità di fare quello che fai nel migliore dei modi. Di correre il rischio di tentare, di correre il rischio di donare, di correre il rischio di amare (Pam Brown) - L’uomo rimane importante non pertchè lascia qualcosa di sé, ma perché agisce e gode, e induce gli altri ad agire e godere (Goethe) - Non saltando, ma a lenti passi si superano le montagne (San Gregorio Magno) - L’aquila vola sola, i corvi a schiera; lo sciocco ha bisogno di compagnia, il saggio di solitudine (Johann Ruckert) - non c’è gioia nel possesso di un bene se non viene condiviso (Seneca)