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Racconto

Il maestro delle insalate

di Ruggero Scarponi

Non sono mai stato un amante delle insalate. Piuttosto preferivo far guarnire le mie pietanze con patate, fagioli, piselli al prosciutto... ma le insalate e soprattutto l’insalata verde, proprio no, non mi ha mai suscitato interesse. Ma guarda il caso che dall’aprile di un anno fa ne divenni un appassionato consumatore. Mi prese un desiderio ostinato di sobri cibi vegetali, tanto che a pranzo e a cena non chiedevo altro. Insalate verdi, miste, con i funghi, con i peperoni e le cipolline fresche, con le zucchine tagliate sottili e il cavolo bianco e persino con la frutta fresca o secca. Smisi di mangiare la pasta, di cui ero goloso, la carne arrostita e il pesce fritto, piatti che amavo, per fare spazio alle verdi lattughe alle tenere cappucce ai turgidi radicchi e alle fragranti ricciolette. Ma se un po’ di curiosità vi smuove l’interesse a questo punto proverò anche a raccontarvi la genesi del mio repentino cambiamento di gusto.

Vi basterà sapere che lavoravo e lavoro tuttora, in una grande azienda, pensate che soltanto nell’edificio che ospita il mio ufficio siamo in un numero prossimo a quello di un paese di provincia: millecinquecentoottancinque impiegati. All’ora di pranzo, di solito in un orario compreso tra le dodici e trenta e le quattordici e quindici, ci riversiamo come un’orda devastatrice nelle sale della mensa per distruggere nel più breve tempo possibile, cospicui pasti per estenuanti digestioni pomeridiane. Ma come sfuggire all’imperioso richiamo delle paste asciutte fumanti che dagli scaldavivande d’acciaio esalano conturbanti profumi di pancette rosolate, ragù opulenti e sughi di mare odorosi? Tuttavia, per quanto mi riguardava, ogni giorno tentavo di resistere, sebbene blandamente, proponendomi, quasi fossi un asceta, di consumare non più che un piatto di esangui e trasparenti fettine di mozzarelle contornate da verdure amare come il pianto dei penitenti, e tutto per contrastare l’incipiente pinguedine da cui mi sentivo seriamente minacciato.

Ma poi una volta avviato sul lungo percorso obbligato che prevedeva di sfilare davanti ai primi piatti per poi accedere alle pietanze, ai contorni e alla frutta, cedevo vergognosamente alla gola, finendo per arraffare come un affamato cui improvvisamente si faccia dono del cibo, le gustose e amate pastasciutte e ciò che più è peggio, dinanzi a delle impudenti e sarcastiche inservienti dai sorrisi maliziosi. Finché un giorno non scorsi “lui”. Lui era un tipo che mangiava alla distanza di un paio di tavoli dal mio. Con una flemma, direi inglese. Indifferente a ogni moina, a ogni richiamo della gola, si sedeva ogni giorno severo, dritto come un palo per consumare invariabilmente una ciotola d’insalata mista, mezza acqua minerale e un frutto.

Di fronte ai pranzi abbondanti che eravamo soliti consumare io e i miei amici con i quali scendevo a mensa e che si componevano di almeno tre portate ipercaloriche, la misera insalata del tipo in questione appariva triste come il lunedì di fronte alla domenica. Eppure mi suscitò un’autentica curiosità quando mi resi conto che impiegava a mangiare i suoi erbaggi ben più di quanto impiegassimo noi a consumare il nostro pasto abbondante. Senza farmi notare presi a osservarlo.

Ciò che mi colpì dapprima e mi affascinò poi fu la particolare grazia con la quale raccoglieva le verdure dalla ciotola. Con pazienza e delicatezza. Potrebbe sembrare eccessivo ma posso assicurare che nel suo procedere con forchetta e coltello, quando fosse necessario, per affettare gli spicchi di pomodoro o di cetriolo che i cuochi, con un po’ di trascuratezza, avevano lasciato troppo grandi, c’era dell’arte. Una sapienza antica, poi, era da lui utilizzata per delle complesse associazioni di colori e di sapori. Riusciva a infilzare una dietro l’altra sulla punta della forchetta, senza apparente difficoltà, un’oliva nera, un pezzetto di lattuga, un quadratino di sedano, una lamella di rapanello o di carota. Osservandolo avevo la sensazione di assistere all’opera di un pittore che invece del pennello utilizzasse una forchetta. C’era dell’arte in quello che faceva, ripeto, e il suo pasto assumeva la dignità di una scena in cui l’elementare esigenza dell’alimentazione era trasfigurata in una rappresentazione teatrale dal significato catartico e vagamente nietzschiano.

La sua figura austera, compresa nella grandezza dell’agire fortemente simbolico e sostenuta da una prorompente energia creatrice s’imponeva nella sala mensa come quella di un sapiente orientale. Non c’erano esalazioni di manicaretti che potessero scuoterne l’odorato e la fede adamantina nelle arboree essenze. Troppo grande era il godimento interiore, fisico e spirituale che ne traeva, o almeno così a me sembrava. Pertanto illuminato da quell’impareggiabile faro di luce vegetale giunsi al porto delle insalate proprio nel mese di aprile di un anno fa.

Tale cambio di radicate abitudini fu da tutti notato. Dai miei amici commensali, prima con dileggio e poi con ammirazione. Dalle inservienti addette ai primi piatti che vedendomi passare indifferente dinanzi alle loro gastronomiche seduzioni si prodigarono ancor più in sorrisi e richiami melodiosi peggio che le sirene di Ulisse. Ma mi tenni fermo nel mio proposito e in poco tempo mi trovai a vagare leggero come un novello Adamo in un nuovo Paradiso Terrestre. Fu un periodo fecondo di accese dispute con i miei colleghi di ufficio e commensali in sala mensa. La sicurezza e la certezza derivate in me dalla sapienza del mio maestro, se così posso chiamare il tizio che mangiava a due tavoli di distanza, furono tali che nel breve volgere di qualche settimana facendomi suo apostolo e a sua insaputa convertii una grande moltitudine.

Le insalate trionfavano finalmente. Le diaboliche inservienti addette al servizio dei primi piatti guardavano sconcertate la processione degli adepti iniziati alla nuova religione. Nel viso di quelle povere donne, dai grembiuli perennemente schizzati di sugo, si poteva leggere ora, private delle nostre povere gole da tentare e tormentare lo smarrimento della dannazione.

Che dire. Fu una rivoluzione. I pasti leggeri influenzarono in maniera decisiva le nostre vite. I dialoghi si fecero più elevati le esigenze più raffinate la vita più colta.

Si aprirono varchi alla discussione alla comprensione là dove fino a ieri c’era la noncuranza e la sonnolenza postprandiale. Lo sport e l’arte divennero attività non solo d’intrattenimento ma persino praticate.

Il nostro maestro ci ammaestrava sereno e ieratico senza mai pronunciare una parola, quasi ignaro del suo alto ministero. In lui non traspariva né l’ansia della conquista né l’orgoglio della sapienza.

Il suo portamento severo e meditabondo suscitava l’idea di una fermezza e di una forza morale quasi sovrumane.

Di volta in volta nella sala mensa divenuta una sorta di tempio egli celebrava il rito comunitario in piena compostezza e umiltà. Tutti guardavamo a lui come a un modello cui conformarsi. Nei mesi a seguire percorsi molti gradi della sua sapienza. Imparai a mangiare i verdi, i rossi i gialli e gli arancioni. Appresi l’arcana scienza dei sapori alternati. Il dolce e l’amaro, l’insipido e il sapido. E l’ingegnosa architettura delle fibre. Io stesso divenni e mi feci maestro di discepoli. Ovunque venivo interpellato. Semplici impiegati, quadri aziendali, capiufficio e direttori generali, uomini e donne, belli e brutti, ognuno di essi veniva a me ansioso di apprendere il verbo. A tutti dispensavo la conoscenza secondo gli insegnamenti che io stesso avevo silenziosamente appreso. Il Maestro mangiava la sua solita insalata e con ciò egli viveva e risplendeva scevro di umana cupidigia in armonia con tutta la natura. Io, secondo quanto mi ero proposto, lo interpretavo e lo portavo alle genti.

Fu solo qualche giorno fa che il maestro ci rivolse la parola e come c’era da aspettarsi il suo parlare ci colpì profondamente e ancor più misteriosamente.

Alzando la testa e puntando i suoi occhi azzurri nei quali si poteva cogliere il riflesso di una luce al contempo intensa e soffusa, si rivolse con fare gentile verso di me. Quasi mi sentii mancare per l’emozione. Egli disse:

- Scusi, potrebbe passarmi il sale per favore? A questo tavolo, oggi, l’hanno dimenticato.


Racconti d'altri tempi  

La festa della matricola

di Agnolo Camerte

Studiare (...otium in latino)... studiare, un po’ dormire? Universitas studiorum... Mi veniva in mente sonno universale... Studiare... che noia! Solo la mia gatta Ruby sembrava capirmi. Si piazzava sulla scrivania e mi guardava con i suoi occhioni dolci e compassionevoli... Quando incominciavo a ripetere l’esame ad alta voce, lei incominciava a fare le fusa, smettendo solo quando io mi zittivo! Allora piano piano si infilava dentro la mia calda giacca da camera e li al calduccio, continuava beatamente a fare le fusa! Lei era felice, per Ruby era il massimo; per me invece, in attesa degli esami, c’era solo un gran libro aperto da studiare e poco da stare allegri!... I Professori erano molto severi!

Tuttavia sarà stata l’età, la fantasia che non ci mancava , la voglia di divertirsi comunque, esame o no, con i miei compagni di facoltà, trovavamo sempre il modo di divertirci dopo lo studio, soprattutto alle spalle delle malcapitate nuove matricole... Le ragazze finivano immancabilmente in vetrina, e come manichini viventi, dovevano reclamizzare di tutto... I ragazzi dovevano sostenere un falso esame pubblico di Diritto Ferroviario... con tanto di dispense da studiare, dove c’era scritto di tutto e di più...

Con un(falso) terribile professore che ne combinava di tutti i colori... tra l’ilarità generale si arrivava alla conclusione dell’esame. Se la Matricola lo aveva superato bene, doveva offrire l’aperitivo a tutto lo staff dei “professori”... Insomma le burle erano all’ordine del giorno... Finchè finalmente si arrivava al fatidico giorno della FESTA DELLA MATRICOLA. Era la festa dell’allegria, dell’inventiva, delle burle a “raffica” e soprattutto della fantasia. Carri allegorici, mascherate, corsa delle carrettelle, costumi, farse teatrali, saltimbanchi improvvisati e gag a non finire. La sera si cenava nelle osterie e poi si andava al grande ballo in maschera al teatro comunale. Al ballo ci si litigavano le poche ragazze studentesse costrette a ballare tutta la sera.

Ripensandoci, non mi ricordo siano mai avvenuti incidenti spiacevoli che abbiano richiesto l’intervento delle forze dell’ordine, come oggi spesso si sente che accade. Di confusione e di scherzi non è che ce ne fosse pochi! Eppure tutto filava liscio all’insegna del più grande divertimento e della più sana ilarità. La cittadinanza veniva a divertirsi con noi. Non mancavano questue in città e nel circondario, per finanziare la festa della matricola. Era la festa di tutti... nella quale si subivano e si facevano gli scherzi più impensabili. ..E tutti partecipavano volentieri.

Naturalmente le rivalità tra Sedi Universitarie c’erano e sulla scia di una specie di campalinismo sui generis, le spedizioni goliardiche cosiddette “punitive” non mancavano. Allora scoppiavano violente “guerre”combattute con grande spargimento di borotalco, biancosanto e naturalmente bombe di acqua, nonché canti a sfottere per portare in giro tutti, anche i temuti Professori...

Conquistare il cuscino della sedia del Magnifico Rettore, preso al “nemico” con una scalata notturna con corde e chiodi sulla parete esterna di un Ateneo, fu una grande impresa. La spedizione fruttò anche la “cattura” del capo degli studenti avversari, che fu appeso dentro la gabbia della gogna, esposto al pubblico ludibrio... Lui tuttavia, si divertì più di tutti, perché fu trattato con tutti gli onori dovuti ad un personaggio di tal rango…Baggianate penserà qualcuno. È vero, ma non si faceva del male a nessuno! Al massimo perdevano una partita a scopone e pagavano da bere! Veramente anche se eravamo tutti degli squattrinati cronici, ci sbellicavamo tutti dalle risate perché ci si divertiva usando la testa, cercando l’equivoco, ed usando l’arte del convincimento “fallace”. Quando oggi leggo sui giornali le devastazioni, i gravi fatti di vandalismo, i giovani che si drogano “per divertirsi” non finisco di stupirmi... Ma come si è pottuti arrivare a tanta imbecillità cieca? Sarà mica vero che la mamma degli imbecilli è sempre incinta? Forse è colpa della nostra generazione che non è riuscita a trasmettere ai giovani che la felicità e l’allegria se la cerchiamo la troviamo dentro di noi? La gioia è parte della nostra vita, regalataci dal Signore. Non bisogna sprecarne neanche un briciolino.

Guardate questo frammento di un vecchio video. Gli studenti constatano che la mula è femmina (e che è molto paziente!)


Ti auguro la felicità di fare quello che fai nel migliore dei modi. Di correre il rischio di tentare, di correre il rischio di donare, di correre il rischio di amare (Pam Brown) - L’uomo rimane importante non pertchè lascia qualcosa di sé, ma perché agisce e gode, e induce gli altri ad agire e godere (Goethe) - Non saltando, ma a lenti passi si superano le montagne (San Gregorio Magno) - L’aquila vola sola, i corvi a schiera; lo sciocco ha bisogno di compagnia, il saggio di solitudine (Johann Ruckert) - non c’è gioia nel possesso di un bene se non viene condiviso (Seneca)